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Una serie tv può essere educativa? L’insegnamento di Squid Game sull’eterna lotta tra individualismo e altruismo

Squid Game non è solo una serie crudele e spettacolare, costruita per scioccare. Ma è un racconto molto più profondo. Perché dietro le maschere inquietanti, il sangue, le sfide spietate, si nasconde – o meglio – si rivela una sorta di Odissea contemporanea, fatta non di eroi invincibili ma di uomini e donne comuni, posti di fronte a scelte estreme. L’ultima stagione accentua questa tensione drammatica tra bene e male, tra istinto di sopravvivenza e desiderio di redenzione. Ma soprattutto tra due forze che sembrano definire la nostra società: individualismo e altruismo. Due forze che sentiamo combattere ogni giorno anche dentro di noi.

Tutto ruota intorno ad un’unica divinità moderna: il profitto. Un “dio” ingannatore e manipolatore che governa e controlla sia i giocatori che gli stessi organizzatori e spettatori. L’importante è guadagnare e vincere. E giocare. Anche per contrastare la noia, che attanaglia gli spettatori vip, disposti a tutto pur di dare un senso alla loro vita.  È una logica spietata, che non ha bisogno di maschere: la vediamo ogni giorno nel mondo del lavoro e nei rapporti sociali. In Squid Game, questa logica viene esasperata, portata al limite. I giocatori diventano come cavalli su cui scommettere. Non più uomini, ma bestie. Lo dice, alla fine, anche l’eroico protagonista. Ogni personaggio, messo sotto pressione, rivela chi è davvero. Non c’è trucco. Non c’è filtro. Crollano le convenzioni sociali, le buone maniere, le maschere di cortesia. Resta solo la verità nuda e cruda dell’essere umano. Alcuni scelgono la strada dell’inganno, del tradimento, dell’omicidio. Altri – pochi – riescono a mantenere una scintilla di umanità. A ricordarsi che, anche quando tutto sembra perduto, si può ancora scegliere il bene. Ed è qui che Squid Game tocca le corde più profonde. Perché tra tante vite alla deriva, tra chi baratta tutto per sopravvivere un giorno in più, emerge la figura dell’eroe. Non un supereroe. Ma un uomo ferito, deluso, sconfitto. Eppure, ancora capace di dire no. Di sacrificarsi. Di scegliere l’altro.

Questa figura, che richiama l’Ulisse dantesco e insieme il Cristo che porta la croce (splendida e terrificante allo stesso tempo, una delle ultime scene del gioco), ci fa intravedere una possibilità: anche nella tenebra più fitta, c’è una via. Anche nel mondo dominato dal “dio profitto”, è ancora possibile rimanere umani. È questo l’aspetto che più mi ha colpito della serie. La sua crudezza – certo. I colpi di scena continui, la recitazione intensa, la regia spiazzante. Ma soprattutto la capacità di educare, scuotendo. Di interrogare lo spettatore, costringendolo a chiedersi: io, al loro posto, cosa avrei fatto? In questo senso, Squid Game è molto più di una serie TV. È un pugno nello stomaco che scuote la nostra coscienza. È una lezione di educazione civica, una prova di “etica applicata”, un laboratorio di pedagogia del conflitto. Perché ci parla di disuguaglianze, di emarginazione, di disperazione. Ma anche di scelta. Di responsabilità. In un mondo in cui le guerre si moltiplicano, le ingiustizie sembrano normali, l’egocentrismo impera, Squid Game ci mette davanti a uno specchio. E ci dice: attento, perché quel gioco sei tu. Sta a te decidere come giocare nella tua vita, dove sarai messo spesso davanti alla scelta di “sacrificare” o “sacrificarti”, di accettare compromessi che contrastano con i tuoi valori o di seguire scelte più etiche.

Nonostante tutto, però, Squid Game non è una serie nichilista. Anzi. Proprio perché scava così a fondo nell’animo umano, riesce a tirarne fuori anche la luce. Un gesto di solidarietà, un abbraccio, una rinuncia in favore dell’altro. Piccoli e grandi gesti che nel contesto della serie assumono una forza dirompente. In Squid Game l’abisso è protagonista in tutte le sue forme: le altezze, i ponti, le torri, le scale. Ma c’è anche un abisso psicologico e morale che mette in conflitto, addirittura, genitori e figli. La serie ci ricorda, senza alcuna ipocrisia, come l’essere umano possa cadere molto in basso, ma anche risalire dall’abisso con la forza di volontà, il coraggio e la tenacia. Squid Game ci insegna tutto questo. Lo fa con i toni cupi della tragedia, ma anche con la chiarezza dei grandi racconti morali. Ci dice che è difficile, ma non impossibile, rimanere umani. Anche – e soprattutto – quando tutto ci spinge nella direzione opposta. E allora, sì, forse la sfida più grande non è vincere il gioco. Ma restare fedeli a ciò che ci rende persone. Anche a costo di perdere tutto.

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