C’è una scena che mi torna spesso in mente quando penso alla scuola: un ragazzo di terza media che mi mostra un video su TikTok convinto che la Terra sia piatta, perché “lo dice un esperto con tanti follower”. Non stava scherzando. E non è il solo. L’alfabetizzazione digitale, la capacità di riconoscere fonti affidabili e di smontare la disinformazione, è oggi una delle competenze chiave per la cittadinanza. Eppure, la scuola – troppo spesso lasciata sola – fatica a far fronte a un mondo informativo che corre veloce, saturo di stimoli e povero di filtri.
È da queste premesse che ho letto con grande interesse lo studio pubblicato su Plos One dai ricercatori Tommaso Nygren ed Evgenia Efimova, finanziato dallo Swedish Institute for Educational Research. Un’indagine rigorosa sull’impatto delle attività scolastiche contro la disinformazione nelle scuole superiori. Il punto di partenza è ambizioso: misurare se e quanto iniziative come il “prebunking” (giochi per riconoscere trucchi della manipolazione) o il “lateral reading” (verifica delle fonti digitali) riescano davvero a migliorare le competenze critiche degli studenti. La risposta, però, è meno rassicurante di quanto vorremmo: sì, queste attività funzionano. Ma non durano. I benefici si affievoliscono nel tempo, soprattutto se non sono rinforzati da percorsi strutturati, continui, capaci di diventare parte del vissuto scolastico. In pratica, interventi “spot” oppure “una tantum” dimostrano di essere inefficaci nel lungo periodo. Parliamo di interventi didattici isolati, anche se ben costruiti. Non bastano. L’effetto positivo tende a svanire dopo qualche settimana. In assenza di un contesto che consolidi l’apprendimento, la capacità di distinguere tra notizie vere e bufale si indebolisce, come un muscolo non allenato.
Lo studio evidenzia anche un divario formativo: gli studenti dei licei mostrano maggiore dimestichezza nel valutare le fonti, mentre chi frequenta istituti tecnici o professionali incontra maggiori difficoltà. È un dato che deve far riflettere: il diritto all’educazione critica non può essere appannaggio di pochi. Serve una didattica inclusiva, che tenga conto delle specificità di ogni indirizzo, e che soprattutto non lasci indietro nessuno. Un altro elemento chiave riguarda la tendenza – sempre più diffusa – a mettere in dubbio tutto. Lo studio parla di AOT (Analytical Oversimplification Threshold), una sorta di scetticismo iperattivo che porta alcuni studenti a dubitare perfino delle notizie vere. È l’effetto collaterale del “tanto sono tutti manipolati”. Il problema? Che così si perde la capacità di distinguere, e il dubbio non è più esercizio critico, ma sfiducia sistemica. Invece di formare cittadini attenti, si rischia di formare disillusi.
Cosa può fare, allora, la scuola? In primo luogo, smontare il mito dell’intervento isolato. La battaglia contro la disinformazione si vince con percorsi lunghi, pazienti, distribuiti nel tempo. Occorre prevedere momenti ricorrenti, trasversali alle discipline, in cui si lavora sulla verifica delle fonti, sulla comprensione dei linguaggi digitali, sulla capacità di decodificare narrazioni e manipolazioni. Il tempo c’è: si chiama Educazione civica e, nello specifico, Mediaeducation. Si può partire dalle 33 ore annuali obbligatorie per ogni classe, collegandole, in un’ottica interdisciplinare a tutte le materie. Le ore di Educazione civica sono una miniera didattica ancora in gran parte da esplorare. In secondo luogo, aprire sempre di più la scuola al territorio.
I docenti non devono sentirsi soli in questa missione. La disinformazione è un fenomeno complesso, che tocca il giornalismo, la comunicazione, l’intelligenza artificiale, la pedagogia, la psicologia. Ed è qui che entrano in gioco i professionisti esterni. Giornalisti, fact-checker, educatori digitali, psicologi, pedagogisti, comunicatori pubblici: figure in grado di portare in classe strumenti, casi reali, esperienze autentiche. Non per sostituire l’insegnante, ma per affiancarlo. Perché un’alleanza educativa forte passa anche da qui: dalla capacità di contaminarsi, di costruire ponti, di fare rete. Occorre un approccio sistemico. Le soluzioni, come spesso accade, non sono miracolose ma praticabili. Programmare, ad esempio, laboratori ricorrenti inseriti in modo organico nel curriculum di italiano, storia o tecnologia, ecc. Personalizzare gli interventi per ogni ordine di scuola, con attività pensate per il contesto specifico: un ragazzo di seconda media non è uno studente di quarta superiore. Valutare in modo autentico: non solo test, ma portfolio, attività pratiche, dibattiti, podcast e simulazioni.
Continuare a formare i docenti con percorsi dedicati alla cittadinanza digitale e all’educazione ai media, in maniera più strutturata. In conclusione, lo studio di Nygren e Efimova non offre una bacchetta magica, ma ci consegna una verità semplice e profonda: educare al pensiero critico è un lavoro di lungo periodo. E, come ogni semina educativa, ha bisogno di cura, costanza e alleanze. La scuola ha davanti una sfida straordinaria: diventare non solo luogo di istruzione, ma presidio di verità e democrazia digitale. Lo può fare. Lo deve fare. Ma ha bisogno di tempo, di fiducia e di risorse. E soprattutto di una visione condivisa, che metta al centro lo studente come cittadino, capace non solo di riconoscere una bufala, ma di scegliere ogni giorno da che parte stare. “L’educazione non serve a riempire un secchio, ma ad accendere un fuoco”, affermò il poeta, drammaturgo, scrittore e spiritualista irlandese, William Butler Yeats. Quel fuoco, oggi, si chiama pensiero critico. E tocca a noi alimentarlo.