Dall’Alaska all’Argentina per studiare la crisi della biodiversità

 Dall’Alaska all’Argentina per studiare la crisi della biodiversità


Un anno e mezzo on the road lungo la Panamericana per indagare il rapporto tra uomo e natura e documentare gli effetti del cambiamento climatico sulla biodiversità, ascoltando le testimonianze di ricercatori, imprenditori, piccole e grandi comunità custodi di tradizioni indigene. Un viaggio lungo più di trentamila chilometri che, da luglio 2022 a gennaio 2024, la porterà ad attraversare 14 Paesi e studiare tutti gli ecosistemi esistenti al mondo. Su datamagazine.it intervista a tutto campo a Valeria Barbi, politologa, divulgatrice scientifica e naturalista, membro della faculty di ISPI e della 24Ore Business School, ideatrice del reportage WANE – We Are Nature Expedition.

Valeria Barbi, credit: Davide Agati

Partiamo dalla domanda principale che è anche il titolo del suo ultimo libro: cosa è la biodiversità?

Dal punto di vista etimologico, questa parola, deriva da “diversità biologica”, espressione che identifica sia la varietà degli esseri viventi sul nostro pianeta sia la pluralità dei livelli in cui questa si esprime, dai geni, alle specie e agli ecosistemi. Se la definizione può sembrare complessa ed è oggetto di dibattito da decenni, la sua importanza è tanto fondamentale, quanto banale eppure ignorata: la biodiversità, infatti, è ciò che siamo ma è anche ciò che ci consente di sopravvivere su questo pianeta grazie ad una serie di beni e servizi fondamentali e gratuiti che ci fornisce ogni giorno. Nel libro “Che cos’è la biodiversità, oggi”, a cura di Edizioni Ambiente, spiego l’importanza della biodiversità, l’impatto delle nostre attività e tantissime curiosità che ho scoperto attraverso alcune esplorazioni che ho fatto in 5 continenti.

Ora è in giro per l’America per il reportage “WANE”, sulla crisi della biodiversità. Perché questo nome?

WANE significa Svanire.E’ quello che sta accadendo al mondo naturale. E non per colpa di un maleficio ma a causa delle nostre attività e dell’impronta insostenibile che abbiamo sul Pianeta. A farne le spese è la biodiversità, ossia milioni di specie animali e vegetali, funghi e microbi con cui condividiamo la Terra… Ma anche culture, lingue e tradizioni. Paradossalmente, però, WANE è anche l’acronimo di We Are Nature Expedition, ossia Noi siamo natura.

Valeria Barbi e Davide Agati

Come nasce il progetto, quali Paesi ha attraversato e dove si trova adesso?

Il reportage nasce, nella mia testa, durante la pandemia. Un periodo complesso in cui l’umanità si è interrogata sul rapporto con il mondo naturale ma le domande non hanno sempre portato alle risposte di cui il Pianeta ha bisogno. Il problema è legato non solo alle nostre scelte e ad un modello di sviluppo economico e sociale che non tiene conto delle esigenze delle altre specie e degli ecosistemi, ma anche ad una crisi della comunicazione. Ora si parla di crisi climatica, e talvolta di sesta estinzione. Ma il modo in cui comunichiamo lo stato del Pianeta rischia di farci cadere in un nuovo errore: quello di dimenticarci di una crisi, se possibile, ancora più urgente e grave, quella della biodiversità. In questa spedizione sto raccogliendo storie di successo e di perdita, di coraggio e di ostinazione, per dimostrare che abbiamo bisogno della scienza ma anche dell’empatia. Niente più delle storie è capace di scatenare questo sentimento così potente da creare connessioni con altre specie di cui, talvolta, non conosciamo l’esistenza e che invece sono fondamentali. È un progetto lungo iniziato il 15 luglio 2022, ad oggi ho attraversato con un van attrezzato già dieci paesi. Attualmente mi trovo in Colombia.

Baia isolotti, Seward. Credit: Davide Agati

Quanti tipi di biodiversità ha visto e studiato? 

Insieme alle persone che ho incontrato ed intervistato, ho indagato su tutti e tre i livelli con cui viene descritta la biodiversità: quella genetica, di specie ed ecosistemica. Ho documentato la coesistenza tra l’uomo e decine di altre specie, dal tapiro di Baird al bradipo didattilo, dal grizzly al salmone chinook, dallo squalo martello comune alle sequoie costiere della California. Un tripudio di vita e di storie che mi hanno aperto gli occhi sulla varietà e la magia di cui è cosparso il Pianeta.

Cosa dice il termometro? Qual è lo stato di salute del Pianeta? 

Viviamo in un pianeta in cui Homo sapiens, una specie giovane che ha mosso i suoi passi sul Pianeta solo 300.000 anni fa, rappresenta solo lo 0.01% delle specie esistenti eppure ha condotto il mondo naturale sul baratro causando la sesta estinzione di massa. 1 milione di specie sono a rischio di estinzione. Tuttavia, non sapendo quante specie esistono sul Pianeta, non sappiamo nemmeno quante effettivamente stanno scomparendo. In pratica, proprio in questo momento alcuni organismi potrebbero estinguersi senza nemmeno aver avuto la possibilità di conoscerli. I fattori di perdita individuati da IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, organizzazione non governativa con sede in Svizzera) sono: sovrasfruttamento, perdita di habitat, inquinamento, specie aliene invasive e cambiamenti climatici. Ma possiamo semplicemente dire che il problema siamo noi uomini, con il nostro modello di sviluppo e la nostra mancanza di cognizione e di rispetto nei confronti della natura.

Tapiri, credit: Davide Agati

Può fare qualche esempio?

I dati ci dimostrano chiaramente che a fronte di un 36% dei mammiferi che vivono sul Pianeta costituito da Homo sapiens, il 60% è costituito invece da bestiame, ad uso umano. Quel che resta, ossia un mero 4%, è formato da tutte le altre specie di mammiferi. Secondo l’ultimo Living Planet Index, tra il 1970 e il 2018 abbiamo perso circa il 70% delle popolazioni di specie selvatiche fra le 31000 analizzate e appartenenti a 5000 specie diverse. Ma la sesta estinzione di massa, non riguarda solo popolazioni e specie ma interi ecosistemi tanto che c’è il serio pericolo che foreste e oceani tropicali possano collassare già nel 2040. Così come le Grandi Praterie degli Stati Uniti. Questi territori, infatti, sono oggetto da decenni di una sfrenata opera di conversione agricola e sono uno degli ecosistemi più in pericolo del pianeta e anche uno dei meno tutelati. Di queste, circa il 90% è di proprietà privata e, rappresentando la spina dorsale dell’industria bovina nordamericana con un indotto di circa 58 miliardi di dollari l’anno, è facile capire quanto siano a rischio. E a proposito di crisi climatica, pensa che con un aumento di temperatura di 1.5°C – che  quanto richiesto dall’Accordo di Parigi – il 4% dei mammiferi perderà la metà del proprio habitat. Con un aumento di 2°C, la percentuale sale all’8 e se arriveremo a 3°, saranno il 41% dei mammiferi a perdere letteralmente la loro casa.

Il momento più emozionante vissuto in questo anno in viaggio? 

Credo sia stato il mio arrivo in Alaska. Una terra che ho sognato da sempre e che ti mette davanti all’evidenza di quanto sia potente la natura e quanto piccoli e insignificanti siamo noi. Ho percorso sentieri tracciati dai grizzly e ho cercato, invano, i lupi artici. E, paradossalmente, il non averli avvistati mi ha dato coraggio perché significa che ci sono ancora angoli del Pianeta in cui la natura selvaggia può trovare riparo e nascondersi da noi. Ma anche la Baja California e il Mare di Cortez dove ho nuotato circondata da una tornado di carangidi e dove ho conosciuto chi si batte per la tutela degli squali, una specie che proprio in quello che Jaques Cousteau chiamava l’acquario del mondo sono sull’orlo del collasso.

E il momento più difficile?

Uno dei momenti più difficili l’ho vissuto in Nicaragua quando mi sono ritrovata a passare alcune ore in compagnia di decine di bracconieri di uova di tartaruga olivastra. Vedere come saccheggiavano i nidi, cancellando intere generazioni di una specie in pericolo di estinzione, non poter fare nulla di fronte alla violenza con cui prendevano le tartarughe arrivate sulla spiaggia a deporre e le spingevano con la forza nei nidi, cercare di comprendere le condizioni di povertà economica e culturale in cui queste persone versano e obbligare me stessa a trovare una motivazione valida è stato difficilissimo e, ancora oggi, penso con grande dolore a quella notte.

La tecnologia e il digitale potrebbero essere una grandissima forza al servizio della sostenibilità dal Pianeta. Ci sono idee e soluzioni che ha scoperto in questo ultimo anno che si potrebbero mutuare anche da noi? 

Nonostante sia consapevole che la tecnologia abbia aiutato la nostra società a vivere secondo il modello che abbiamo perseguito, l’uomo è ancora troppo schiavo del genio tecnologico e continua erroneamente a pensare che sarà questo a salvarlo. Al contrario, è solo salvando la natura che salveremo noi stessi. A questo aggiungerei che gran parte delle nuove frontiere dell’era digitale, primo fra tutti il metaverso, mi spaventano un po’. Mi sembra rappresentino l’ennesimo tentativo dell’uomo di non assumersi le sue responsabilità e di lottare per l’unico vero Pianeta in cui abbiamo la fortuna di vivere. Persino gli strumenti tecnologici che utilizziamo hanno una qualche connessione con la natura o perché questa ci fornisce le materie prime per costruirli o perché dalla natura, dalla biodiversità prendiamo spunto per dare loro vita. Un esercizio che ha anche un nome: biomimesi, ovvero imitare quello che c’è in natura per creare oggetti, strategie, strumenti che ci aiutano nella nostra vita. Ammiro e sostengo fortemente, invece, quelle tecnologie a supporto del ripristino o restauro ecologico che funzionano e cercano di riparare i danni fatti dalla nostra specie. 

Anche la comunicazione potrebbe giocare un ruolo fondamentale in questa partita…

Sicuramente. Stiamo affrontando anche una grave crisi della comunicazione. Dal lessico alle priorità tematiche, il racconto che viene fatto non è ancora in grado di creare reale consapevolezza. Per darti un’idea, ad esempio, di quanto sia diverso il trattamento tra crisi della biodiversità e crisi climatica, e quanto la prima sia trattata quasi come un’ospite indesiderata, vi basti sapere che una ricerca pubblicata nel 2018 su Frontiers, sottolinea come tra il 1991 e il 2016, in 3 paesi come Canada, USA e UK, i cambiamenti climatici abbiano avuto una copertura superiore di ben 8 volte rispetto alla crisi della biodiversità. I motivi sono molteplici e, tra i vari, la mancanza di conoscenza per il significato e il valore sociale ed economico della biodiversità, la sua importanza nel raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030, così come la mancanza di empatia verso il mondo naturale. 

La battaglia degli ecoattivisti si gioca tutta sul terreno della visibilità mediale con effetti contrastanti sull’opinione pubblica. È tutta una questione di disinformazione?

Io credo che l’attivismo stia facendo moltissimo e, in un momento di crisi come quello attuale, è normale aspettarsi rabbia, frustrazione e azioni che possono essere considerati estreme. Ma non lo è, forse, anche il baratro verso cui ci stiamo dirigendo? Parte dell’opinione pubblica condanna alcuni comportamenti che, però, fino ad ora non hanno mai danneggiato davvero e inesorabilmente alcun patrimonio culturale. Eppure, non vedo lo stesso sdegno per il milione di specie che rischiamo di annientare o per la violenza con cui le trattiamo. E nemmeno per i milioni di ettari che vanno a fuoco negli incendi che, ogni anno sempre di più, devastano intere regioni (pensa a quello che sta accadendo in Canada nelle ultime settimane). E l’elenco è così lungo che servirebbe un’altra intervista…

Ha un consiglio da dare per coloro che vorrebbero occuparsi di ambiente ma non sanno da dove iniziare?

Studiare, essere sempre aggiornati, cercare di specializzarsi su un argomento di cui dovete diventare il punto di riferimento ma continuando ad essere estremamente trasversali così come lo è la crisi attuale. Essere versatili e consapevoli che occuparsi di ambiente richiede una profonda passione e tanto amore per il mondo naturale. Non fatelo per essere sulla cresta dell’onda o per guadagnare più follower sui social. Fatelo perché è un dovere morale e perché è uno dei lavori più gratificanti che esistano. Dal punto di vista della formazione, mi sento di dire che è fondamentale, oggi, capire che tutte le professioni, comprese quelle legate alla tutela dell’ambiente, sono fluide e richiedono di saper comunicare, gestire progetti, rispondere a bandi di finanziamento, passare ore all’aria aperta ad osservare.

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