Il lavoro ci rende felici?

 Il lavoro ci rende felici?

Il lavoro occupa la maggior parte della nostra vita. Assorbe energie, impegno e fatica. Ma che impatto hanno davvero sulla nostra quotidianità, o meglio sulla nostra felicità, tutte quelle ore dedicate alla nostra azienda o alla nostra attività? Ci sentiamo soddisfatti, capiti, compresi, valorizzati? Crediamo insomma che il nostro lavoro abbia davvero un valore per gli altri? Per i nostri responsabili o colleghi?

L’Associazione “Ricerca Felicità” ha deciso di tentare una risposta a queste domande fornendo i primi dati sullo stato di salute della felicità e del benessere dei lavoratori, sia nella dimensione aziendale sia in quella individuale e sociale, fotografando sei obiettivi d’indagine: felicità in generale, solitudine e isolamento, felicità al lavoro, senso di appartenenza, riconoscimento e discriminazione e lavoro e suo significato.

“Ci siamo focalizzati nell’ambito lavorativo ma di fatto il centro della nostra ricerca è sempre l’individuo. Non consideriamo la felicità un sentimento fugace ma una meta-competenza scientificamente provata che può permettere, attraverso l’inclusività e le ricchezze dei singoli, un nuovo benessere organizzativo” – afferma Elisabetta Dallavalle, Presidente dell’Associazione Ricerca Felicità  “I dati mostrano una popolazione mediamente soddisfatta, ma quello su cui va assolutamente puntata l’attenzione è la mancanza di allineamento valoriale tra lavoratori e imprese e la mancanza di orientamento al futuro. Riteniamo quindi sia fondamentale ascoltare con attenzione i segnali deboli che provengono da questi dati, soprattutto in merito all’importanza di far leva sull’ascolto attivo e attento dei propri collaboratori. Ci sono opportunità incredibili, per la redditività delle imprese e per la loro crescita a livello competitivo in Italia e nel mondo, quando si valorizzano le aspirazioni individuali dei collaboratori e si aiutano a esprimere se stessi sul lavoro”.

Il lavoro ci rende felici?

Dall’indagine emerge che il 16% ritiene che l’affermazione “esprimo le mie emozioni senza essere giudicato” nell’ambiente di lavoro sia assolutamente falsa, mentre quasi il 30% si ritiene poco concorde con l’affermazione “i miei meriti vengono sempre riconosciuti”. Tra i Baby Boomers è significativamente più elevato il peso di coloro che ritengono riconosciuti in modo assolutamente adeguato i loro meriti rispetto alle altre generazioni (31% contro una media di 20/21%). Se si analizza la dimensione felicità in generale e la soddisfazione della vita, emerge che tra i rappresentanti della generazione Z solo il 19% si trova concorde a ritenere che la propria vita sia vicina al proprio ideale, contro il 28% dei Baby Boomers. 

“Ci troviamo di fronte a una generazione che non accetterà di considerarsi felice solo per il fatto di avere un lavoro – come pare di leggere dai dati – ma chiede allineamento culturale e sceglierà di lavorare con le aziende che rispettano i propri valori. I disagi esposti devono fungere da monito e riteniamo fondamentale lavorare sulla componente emotiva e sul potenziale che talvolta sembra rimanere inespresso. Crediamo sia importante stimolare i giovani fin dalle scuole primarie alla scoperta dei propri talenti, del proprio purpose e nell’uso del capitale potentissimo che tutti noi abbiamo: l’Immaginazione” afferma Elga Corricelli co-founder dell’Associazione Ricerca Felicità. 

Con la volontà di offrire strumenti al mondo del lavoro per allineare i propri valori con quelli dei propri collaboratori per una crescita corale, la dimensione del lavoro è stata analizzata da diversi punti di vista e si osserva come le frasi “mi fa capire le persone e il mondo che mi circonda” con il 27.9 % e “contribuisce alla mia crescita personale” con il 25,3% siano stati indicati in modo estremamente preponderante da chi ritiene questa affermazione “vera” nel contesto nel suo lavoro, mente le frasi “soddisfa tutti i miei bisogni” con il 27,1%  e “ho una carriera piena di significato” con il 24% siano quelle scelte da chi le ritiene “false” ossia per nulla riscontrabili nel proprio ambito lavorativo. Il 15.3% ritiene che l’affermazione “ha un impatto positivo per il mondo” riferita all’azienda in cui lavora sia assolutamente falsa e alla domanda se il proprio lavoro “fa la differenza” solo il 7.6% crede sia assolutamente vero contro il 13.5% assolutamente falso.

Crediamo sia fondamentale, per chi coordina persone, prendere in seria considerazione il soddisfacimento dei bisogni di collaboratori o dipendenti. In ogni azienda ci dovrebbe essere un piano di sviluppo dei bisogni perché il benessere aziendale si traduce in performance migliori. Questa è scienza e una ricerca di Ernst & Young realizzata assieme all’Università di Harvard, ha dimostrato che le aziende che lavorano perché tutti i propositi siano allineati, rendono agli investitori fino a dieci volte di più” commenta Sandro Formica, Vicepresidente e Direttore scientifico dell’Associazione Ricerca Felicità.

Non sono da sottovalutare, quindi, i segnali deboli dei lavoratori che si sentono meno soddisfatti, in generale, sul riconoscimento dei loro meriti o soddisfazione sulle opportunità di carriera dove il 23,7%, la maggior parte dei lavoratori, indica che è soddisfatto pochissimo.

La survey ha coinvolto 1.314 persone, suddivise tra lavoratori dipendenti (72,3%) e liberi professionisti (27,7%), suddivisi per sesso con una media ponderata di 42.3% di donne e il 57,7% di uomini, appartenenti alle 4 generazioni (Baby Boomers, Generazione X, Millennials, Generazione Z) in rappresentanza della popolazione italiana attiva nel mondo del lavoro.

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